giovedì, marzo 30, 2006

immersioni senza liquidi

Theme: SATURDAY' S GONE - Isobel Campbell and Mark Lanegan
Mood: liquid

Salgo le scale di casa a due a due, con le chiavi in mano. Non fa freddo e se punti le narici a nord puoi sentire l'odore di stalla e del fieno secco.
Infilo la chiave nella serratura e apro piano la porta. Venti, trenta, sessanta, ottantacinque gradi, angolo retto.
Sento il cane che sbatte la coda sul divano, ma chiudo la porta dietro di me e vado in camera.

Sfilo il grembiule nero che sa di birra e di mezzi sorrisi, i capelli legati dalla nicotina e da qualche nodo che il pettine ha scansato. Anche lui.

Lei è sempre lì. Stesa sul letto disfatto e avvolta nel cellophane, la liberi e te la incastri tra le mani. Un' alt
ro sabato è andato.

giovedì, marzo 23, 2006

Dì'stanze'



Ieri notte c'eri tu a scaldarmi mentre distesa su un letto disfatto abbandonato da mesi tenevo in mano il telefono verde bottiglia. Dall' altro lato l'odore delle arance e lo scatto ripetuto di un accendino che scintilla.
Nessun odore familiare tra quelle quattro pareti storte, né tabacco, né dopobarba, né odore di polvere.
Solo un sentore di abbandono che spogliava gli oggetti e li rendeva nuovi, senza correlazioni.
Guardavo la stanza come fosse la prima volta, la tastavo in ogni angolo con lo sguardo per ricostruirne la forma, le dita fredde come al solito, ma gli angoli sembravano aprirsi.

Ti sei avvicinato trattenendo il respiro e con lentezza mi sei salito sopra, il tuo corpo morbido contro le mie costole, le dita tiepide. Il mio diaframma che si alzava appena, restisteva, tremava, cadeva.

"Quanti chilometri sono?"
"Tanti" (in apnea...)

"Non sono tanti, né pochi, sono semplicemente troppi"



Aspetta. Resta. E ti sistemi tra di me come su un trono.


Poco ossigeno in cambio di un po' di calore.

sabato, marzo 18, 2006

in-cubo


"Arrivederci"
"Arrivederci. Grazie, buonanotte"


Bene, mi dico, ci siamo. Sfilo via il sorriso dalla faccia: lo piego in due, e lo ripongo nella tasca destra dei pantaloni; è un po' sgualcito stasera, domani vedrò di tirarlo meglio.

Mi fermo davanti alla porta del bagno, in penombra infilo i guanti in lattice e apro e chiudo la mano in modo che aderiscano bene alla pelle. Entro.

La luce è la stessa. Bianca, slavata, verdastra, rivelatrice, cruda, semicrudele nello svelare ogni difetto che già la stanchezza evidenzia abbastanza. Un pezzo di carta bagnata dentro il lavandino, un capello, sul marmo piccolissime macchie di sangue e un po' di fondotintà in polvere.
Vanità. Chissà come c'è finito il sangue, ti chiedi.

La spugna intrisa di detergente assorbe tutto-se ascolti bene la senti anche masticare-scivola dentro al lavandino e con un movimento semiricolare torna su, sulla cannella di acciaio leggermente arrugginita alla base.

C'è una musica che non si distingue, forse è tango, ma non so, troppo electro, di sicuro non è rock. Giro il tappo della varichina, né verso un po' sulla spugna. "Cin cin" mi dico, "a te".

una goccia cade dentro al water l'acqua vibra.


Pulisco tutto, sopra, sotto di lato, gli occhi bruciano un po', ma non ci bado, tiro l'acqua e spingo indietro la testa per riposare il collo.

Prendo lo spray ritorno davanti al lavandino: nello specchio un viso pallido, le labbra mosse, le palpebre che battono e si sbattono di quello che ci sarebbe da vedere.
La mia immagine contesa tra due specchi, mi muovo e lei si muove, mi anticipa quasi.
Lei prende lo spray e spruzza il liquido sul viso- i lineamenti si confondono si liquefanno in piccole gocce, alcune colano-l'altra non si muove socchiude gli occhi appena, ammicca, si trattiene, poi prende della carta e la strofina sullo specchio nel punto del viso e lava via tutto.

Ripristina il riflesso.
Due specchi che si specchiano, sul pavimento sono carta sporca, fragile e bagnata tra mattonelle blu elettrico.

venerdì, marzo 17, 2006

Lato passeggero


"Sì" "Sì" "Sì"

Ma tu continui a parlare, a dare spiegazioni, a riempire le orecchie della tua passeggera di superfluo.
Guardo fuori dal finestrino, sta per piovere e sulla discarica volano gabbiani. Ci butto qualche mio pensiero-ormai sono rifiuti e la mente comincia a puzzare.
"Ho lavato la felpa bianca e in tasca aveva lo sporanox"
"Sarà arrivata la comunicazione alla fiorentina gas?"
"Devo andare in posta alle sette chiude e domani non ho tempo"


I gabbiani.
Dovrebbero volare sul mare, i gabbiani.

giovedì, marzo 09, 2006

tempo








Sei te che cerchi di ammazzare il tempo o

è il tempo che tenta di uccidere te?










Bologna, incima a un palazzo.


E perdonatemi se non riesco a scrivere altro.

Fatalisti astenersi

Ieri mentre aspettavo alla stazione con le mani in tasca e la sciarpa poco sotto gli occhi, mi è passato davanti un treno che aveva sui vagoni la pubblicità della regione sicilia.
Ho pensato alle arance.

martedì, marzo 07, 2006

Bei tempi

Lo sapevo che me ne sarei pentita....Amaramente pentita.
Questo non è il primo blog che apro (non sarà nemmeno l'ultimo) ma un tempo, ahimé avevo un blog piuttosto letto e abbastanza valido su giovani. it.
Poi un giorno ho cancellato tutto come fanno gli adolescenti in preda a crisi produttive. (letterarie)
Ho fatto una ricerca su google e ho trovato questo: nostalgia

lunedì, marzo 06, 2006

Cemento disarmato

Te ne stai lì seduta a fissare l'orologio. Dodici e zerodue. Un attimo di straniamento per capire dove sei. Si beh, quello lo sai, dentro la biblioteca dell'università. Ti mandi dietro l'orecchio una ciocca di capelli e cominci a fotografare tutto.

Ti accorgi di essere circondata da un mondo che non sentivi, ma forse intuivi: il suono elettronico dell'ascensore che si apre, il battere dei polpastrelli su tastiere, l'attrito del lapis che scorre sulla carta, sbadigli, parole sussurrate, oui oui, il tuo stomaco che si muove.
Estrai tutto piano piano, isoli ogni suono dal sottofondo con precisione chirurgica, sfili ogni decibel con meastria dal magma sonoro che da ore ti stuzzica i timpani senza che tu te ne accorga.
Eppure sentivi il silenzio, o almeno credevi di sentirlo.
Ti mordi un angolo del labbro e guardi quel graffio sull'indice, che non si sa bene cosa stia lì a indicare, visto che non ti ricordi come te lo sei fatto o quando.
Posi il tuo sguardo sulla vetrata accanto che ti mostra uno squarcio di mondo fin troppo colorato -fuori la gente cammina meccanicamente, a passo svelto, forse per la fretta, forse per il vento gelido o per arrivare prima al bar, che a quest'ora è sempre pieno. Ci pensi un attimo e ti domandi come facciano a digerire e addirittura a mangiare.

Asfalto. Vetro. Cemento.
Adesso vorresti essere là fuori, a farti spostare il baricentro dal vento, solo per il gusto di scoprirti instabile anche fisicamente, di là ad allungare un dito verso il cielo per assicurarti che non ti resti il polpastrello macchiato di tempera blu, tanto è intenso.
Invece sei qui, chiusa ermeticamente dentro una scatola di cemento e vetro che per quanto tu provi a leccare, annusare, ascoltare, non ha sapore, né odore né suono. E non sai se sentirti protetta o prigioniera. Ma quando decidi di alzarti è troppo tardi: il vento è calato.