lunedì, marzo 06, 2006

Cemento disarmato

Te ne stai lì seduta a fissare l'orologio. Dodici e zerodue. Un attimo di straniamento per capire dove sei. Si beh, quello lo sai, dentro la biblioteca dell'università. Ti mandi dietro l'orecchio una ciocca di capelli e cominci a fotografare tutto.

Ti accorgi di essere circondata da un mondo che non sentivi, ma forse intuivi: il suono elettronico dell'ascensore che si apre, il battere dei polpastrelli su tastiere, l'attrito del lapis che scorre sulla carta, sbadigli, parole sussurrate, oui oui, il tuo stomaco che si muove.
Estrai tutto piano piano, isoli ogni suono dal sottofondo con precisione chirurgica, sfili ogni decibel con meastria dal magma sonoro che da ore ti stuzzica i timpani senza che tu te ne accorga.
Eppure sentivi il silenzio, o almeno credevi di sentirlo.
Ti mordi un angolo del labbro e guardi quel graffio sull'indice, che non si sa bene cosa stia lì a indicare, visto che non ti ricordi come te lo sei fatto o quando.
Posi il tuo sguardo sulla vetrata accanto che ti mostra uno squarcio di mondo fin troppo colorato -fuori la gente cammina meccanicamente, a passo svelto, forse per la fretta, forse per il vento gelido o per arrivare prima al bar, che a quest'ora è sempre pieno. Ci pensi un attimo e ti domandi come facciano a digerire e addirittura a mangiare.

Asfalto. Vetro. Cemento.
Adesso vorresti essere là fuori, a farti spostare il baricentro dal vento, solo per il gusto di scoprirti instabile anche fisicamente, di là ad allungare un dito verso il cielo per assicurarti che non ti resti il polpastrello macchiato di tempera blu, tanto è intenso.
Invece sei qui, chiusa ermeticamente dentro una scatola di cemento e vetro che per quanto tu provi a leccare, annusare, ascoltare, non ha sapore, né odore né suono. E non sai se sentirti protetta o prigioniera. Ma quando decidi di alzarti è troppo tardi: il vento è calato.

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